Li troviamo spesso su salumi e formaggi, ma anche su frutta, verdura, pasta, fino al miele e, in un caso, al cioccolato: sono i marchi che attestano le denominazioni DOP, IGP e STG, che collegano un dato prodotto agroalimentare a una specifica area geografica e/o modalità di produzione.
L’Italia è il Paese europeo che ne vanta il maggior numero: oltre 300, senza contare i vini.
Tutti i prodotti che portano uno di questi marchi sono accomunati dal fatto che sono tenuti a essere prodotti secondo un preciso disciplinare, che può andare a specificare, ad esempio, che alimentazione può o non può essere usata in allevamento, da che zona devono provenire le materie prime, o dove deve essere fatta la lavorazione, quali ingredienti sono ammessi e quali proibiti, o le caratteristiche chimico-fisiche del prodotto finito.
Tra i più noti in Italia, non possono mancare ad esempio il prosciutto di Parma o di San Daniele, entrambi DOP, o il Salame Piemonte per noi la più importante delle IGP.
IGP anche la bresaola della Valtellina e la Mortadella di Bologna; tra i formaggi sono DOP il Parmigiano e il Grana, mentre è IGP ad esempio la burrata di Andria; tra gli ortaggi è IGP la cipolla rossa di Tropea, DOP il basilico genovese.
Ma che differenza c’è tra DOP e IGP, e tra loro e la meno nota STG?

Cominciamo dal marchio DOP: Denominazione di Origine Protetta. Tra le tre denominazioni, è quella che indica – ed esige nel disciplinare – il legame più forte tra i prodotti che lo vantano e il luogo dal quale provengono. Ogni singola parte dei processi di produzione, di trasformazione e di preparazione devono avvenire nella zona geografica specificata, dalle materie prime al prodotto finito. E’ riservato quindi a quei prodotti le cui caratteristiche dipendono in maniera inalienabile dall’ambiente di produzione, inteso sia come ambiente naturale (il clima, la flora tipica, ecc) sia come tipicità della lavorazione (tecniche tradizionali e/o artigianali).
Il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) è invece riservato a quei prodotti che continuano ad avere un forte legame con una data area geografica, nella quale, però, è sufficiente che abbia luogo almeno una delle fasi di produzione, lavorazione e preparazione, anziché tutte. La bresaola della Valtellina, ad esempio, viene prodotta in quella valle secondo tecniche tradizionali secolari, senza che la materia prima debba necessariamente provenire tutta dalla valle stessa: può avere un’origine diversa, se il rispetto per tutte le caratteristiche previste dal disciplinare specifico sono pienamente soddisfatte.
STG è invece la sigla delle Specialità Tradizionali Garantite: in questo caso l’accento viene messo sulla tipicità della ricetta o del metodo di produzione, che deve esistere da più di 30 anni, senza vincoli di tipo geografico. La produzione può quindi essere effettuata ovunque in Europa, a patto che le modalità con cui avviene rispettino pienamente il disciplinare specifico. Tra gli esempi più noti, la pizza napoletana o il condimento per la pasta all’amatriciana, con il suo tipico guanciale.
In comune, i tre marchi DOP, IGP e STG, hanno invece l’obiettivo: come riporta il Ministero delle Politiche Agricole, il loro scopo è infatti quello di “tutelare gli standard qualitativi dei prodotti agroalimentari, salvaguardarne i metodi di produzione, fornire ai consumatori informazioni chiare sulle caratteristiche che conferiscono valore aggiunto ai prodotti”.
https://dopigp.politicheagricole.it/web/guest/le-denominazioni